(dalla Tesi di Laurea “Danzaterapia e psicosi” di Monica Diamantini)
La parola danzaterapia (o danza movimento terapia) rivela, nella stessa composizione, la sua vocazione terapeutica e la sua derivazione dalla danza. La danza è un importante strumento di espressione globale della persona, una forma di manifestazione delle dimensioni profonde della natura umana. […] L’opera d’arte del danzatore è la coreografia realizzata col proprio corpo, espressione del suo essere al mondo nella globalità del proprio Io corporeo. Ma essa è anche tensione, come suggerisce la sua radice sanscrita tan, che significa appunto tensione: l’uomo che danza trascende i propri limiti e tende verso qualcosa fuori di lui, qualcosa di spirituale, di divino[1]. Garaudy [2] sostiene che la danza mette in opera il nostro sesto senso, secondo il quale possiamo avere coscienza della tensione dei nostri muscoli e della loro posizione. Questo sesto senso stabilisce, attraverso il fenomeno di simpatia muscolare, il contatto tra chi danza e chi partecipa, elicitando il nascere dell’emozione. La danza, insomma, come ogni forma d’arte, rappresenta il tramite più corto tra un uomo e l’altro[3], poiché non necessita della mediazione astratta della parola. L’uomo danza da sempre: per propiziarsi la natura, per pregare, per condividere momenti di festa e di dolore con il gruppo di appartenenza e per curare.
Attorno ai primi del ‘900, in opposizione alla danza accademica, nasce la Modern Dance, che restituisce alla danza le sue potenzialità espressive, aprendo, o meglio ri-aprendo la strada verso un suo utilizzo terapeutico. Si tratta di una danza libera che celebra l’unità dell’uomo, anima e corpo, e dà spazio alle emozioni e ai sentimenti. Il punto di partenza della Modern Dance è la ricerca del “movimento chiave”, cioè di quel luogo del corpo da dove parte il primo movimento. Alcuni danzatori di questo periodo fungono da trait d’union tra danza e danza terapia. Isadora Duncan (1877-1927), danzatrice statunitense, ad esempio, per prima tenta di coniugare la danza con la vita. Secondo la Duncan, la danza è in grado di esprimere, attraverso il movimento del corpo, l’anima dell’essere umano; deve accostarsi alla natura ma esprimere anche le emozioni dell’umanità. Ella vive la danza come momento dionisiaco.
Martha Graham (1894-1991), anch’ella statunitense e figlia di uno psichiatra. Si ispira ai concetti junghiani di simbolo, di mito, di inconscio collettivo e di archetipo. Secondo questa interprete, la danza deve esprimere e comunicare la vita reale; essa è un linguaggio, di cui i vari gesti costituiscono il vocabolario.
Un altro importante contributo è quello di Rudolf Von Laban (1879-1958), ungherese, che studia il movimento in modo sistematico. Per lui il gesto esteriore ha sempre una motivazione interna ed è possibile cogliere il significato della danza solo comprendendo le leggi del movimento. La sua “Laban Movement Analysis” è un sistema di osservazione e analisi del movimento che permette di leggere la relazione tra i diversi orientamenti nello spazio e l’organizzazione armonica delle sequenze. In questo metodo c’è un approccio di tipo simbolico al movimento, inteso come espressione di un inconscio collettivo ed un inconscio personale. Esso consente l’osservazione del movimento in base a due elementi fondamentali: l’impulso interno che produce il gesto (Effort), e la forma che il corpo descrive nello spazio (Shape).
L’“Analisi Laban”, che può essere espressa attraverso un sistema di rappresentazione grafica (kinetografia), consente una valutazione in termini quantitativi ma soprattutto in termini qualitativi; permette cioè di descrivere l’esecuzione di un determinato movimento rapportandolo al tempo, allo spazio, al peso e all’energia. In particolare le scuole nordamericane hanno fatto di questo strumento sia un uso diagnostico che programmatico, correlando i dati emersi con il vissuto del paziente. La sua sempre più ampia diffusione tra i danzaterapeuti ha contribuito allo sviluppo di un linguaggio e una terminologia comune, indispensabile per un confronto sul piano clinico. Il metodo Laban è stato approfondito ed ampliato dalla sua allieva Irmgard Bartenieff (1900-1981), tanto che si parla oggi di “metodo Laban-Bartenieff”. Un altro sviluppo in tale direzione è stato apportato da Judith Kestenberg, che interpreta le qualità specifiche del movimento in relazione agli stadi freudiani dello sviluppo.
In questo clima di rinnovamento negli anni ’40 dello scorso secolo alcune danzatrici iniziano a scoprire, partendo dalla propria esperienza personale, gli effetti terapeutici della danza. Citiamo in particolare Marian Chase (1896-1970), danzatrice statunitense, che s’interessa di bambini con disturbi della comunicazione e del comportamento. Lavora all’Ospedale Psichiatrico St. Elisabeth di Washington dove ottiene che il danzaterapeuta sia integrato nell’équipe curante. S’interessa alla psicoanalisi di Freud, alla psicologia del profondo di Jung, alla psicologia dell’Io di Hartmann. La sua danza è influenzata anche da Reich per quanto concerne l’interpretazione di “corazza difensiva”, e da Sullivan, per il quale la personalità si sviluppa nel continuo intreccio delle relazioni con l’altro.
La “danza basica” di Marian Chase è l’esteriorizzazione dei sentimenti interni che non trovano una via di sfogo nel discorso razionale, e che possono invece essere espressi attraverso il movimento simbolico e ritmico.
Oltre a lei, ricordiamo anche Trudi Schoop (1903-1999); danzatrice classica e artista di pantomima di origine svizzera, allieva di Rudolf Laban, arriva in California dopo la Seconda Guerra Mondiale. Al Camarillo State Mental Hospital di Los Angeles lavora con pazienti psicotici, nei quali rileva il parallelismo fra disorganizzazione psichica e disorganizzazione del movimento. Ella propone una riorganizzazione a livello mentale attraverso un’organizzazione coreografica, partendo da danze semplici: dal corporeo al mentale. Come non menzionare, poi, Mary Starks Whitehouse (1911-1979), statunitense, che studia con Marta Graham, s’interessa di psicologia analitica e si sottopone ad analisi junghiana. Il suo lavoro, al contrario di quello della Schoop, si svolge con soggetti nevrotici, nel suo studio privato. Il lavoro terapeutico coi suoi pazienti, socialmente adattati, è centrato più sulle dinamiche interiori che su quelle relazionali, anche quando le sedute sono di gruppo. Ella s’ispira fortemente a ciò che Jung chiama “immaginazione attiva”, tecnica che permette un incontro tra Io e inconscio, incontro in cui l’Io si lascia attraversare da ricordi e fantasie provenienti dall’inconscio. Il metodo della Whitehouse, ispirato all’immaginazione attiva, prende il nome di Movimento Autentico. Esso utilizza il movimento per analizzare il materiale che emerge dal profondo, come avviene nella terapia classica con i sogni. Secondo la descrizione che ne dà la sua allieva e danzaterapeuta Joan Chodorow, la Whitehouse aiuta i suoi allievi a comprendere la differenza tra movimento diretto dall’Io (io mi muovo) e il movimento che viene dall’inconscio (io sono mosso), promuovendo entrambe le modalità nel processo creativo[4].
Questo modello americano pone le basi della Danza Movimento Terapia psicodinamica, arricchito successivamente dai contributi di Debra McCall e Rosa Maria Govoni, alle quali si deve la nascita del Dipartimento di Danza Movimento Terapia di Art Therapy Italiana.
Un altro filone storico fa capo a Herns Duplan, danzatore haitiano che studia i rituali delle società tribali ed elabora l’approccio chiamato “Expression Primitive”, dove “primitive” indica quanto di primordiale esiste in ogni uomo. Per Duplan la danza è una forma d’arte usata come strumento di crescita personale e collettiva di ogni essere umano, in senso antropologico.
France Schott-Billman, allieva di Duplan, porta l’applicazione dell’E.P. in ambito psicoterapeutico. La Billmann, psicoanalista e danzaterapeuta, elabora una teoria della danzaterapia che si rifà alla psicoanalisi freudiana e ai suoi sviluppi lacaniani, nel quadro dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. Dalla pratica dell’Expression Primitive, sul terreno della clinica gruppoanalitica[5], nascerà negli anni ’90 la Danzamovimentoterapia Espressivo-Relazionale (DMT-ER), sistematizzata da Vincenzo Bellia, psichiatra, gruppoanalista e danzaterapeuta.
Maria Fux, danzatrice e coreografa argentina, studia danza moderna con Martha Graham. Ella non è né psicologa, né psicoterapeuta; la sua terapia non ha nulla a che fare con le interpretazioni psicodinamiche profonde, ma si riferisce al cambiamento che è reso possibile attraverso il movimento creativo che, emanando dal corpo, si espande anche alla psiche. E’ l’approccio di una danzatrice che giunge alla terapia in maniera intuitiva, dopo aver sperimentato su se stessa le potenzialità del movimento creativo per uscire dalla depressione. Dalla collaborazione di Maria Fux con Lilia Bertelli nasce a Firenze nel 1989 il Centro Toscano di Formazione in Danzaterapia Maria Fux.
Tratto dalla Tesi di Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità di Monica Diamantini dal titolo: Danzaterapia e Psicosi
Relatore Prof. Mario Rossi Monti
[1] C. Sachs, Storia della danza, Il Saggiatore, Milano, 1966, p.22..
[2] R. Garaudy, Danzare la vita, Cittadella, Assisi, 1973, p. 19
[3] R. Garaudy, op. cit., p. 19.
[5] V. Bellia, Se la cura è una danza, cit., p. 15.
La Danza Movimento Terapia di cornice psicodinamica- Art Therapy Italiana
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